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giovedì 26 novembre 2009

La gerla


Ho avuto un’infanzia felice. Credo. Sicuramente libera. Sono l’ultimo nato di una numerosa famiglia, da genitori anziani che si erano espressi sufficientemente prima della guerra, e poi gli eventi, forse, li avevano demotivati.
Fatto sta che molto poco diplomaticamente mia madre mi presentava come il “fuori programma” e, quando era particolarmente arrabbiata con me, come “l’incidente”. Di fondo sono stato molto amato dai miei genitori e, a loro modo, anche dai miei fratelli che tentavano di correggere la deriva pedagogica che i miei genitori con me, indubbiamente, conducevano.
In soldoni i miei fratelli (due maschi e una femmina) mi affibbiavano gli sculaccioni che a loro volta avevano preso, e che i miei genitori non avevano più l’energia di elargirmi quando e se dovuto.

La casa di famiglia sorge davanti ad un grande giardino in quel di Mantova. Piazza Virgiliana si chiamava e si chiama. A Mantova molto sa di Virgilio. Ho abitato in Via Virgilio, ho frequentato il liceo classico Virgilio, mi sono nutrito del riso vialone nano Virgilio. Insomma, Virgilio è una gloria della mia terra assieme ai Gonzaga, al Mantegna, Leon Battista Alberti, Giulio Romano, Merlin Cocai, Tazio Nuvolari e Learco Guerra. Sacro e profano.
La Piazza Virgiliana è stata molto importante nella mia infanzia. Infatti, oltre agli alberi e al verde presente ma allora non molto ecologicamente considerato, nella parte verso il lago di mezzo ospita un grandioso monumento al Poeta: davanti due blocchi marmorei che rappresentano le Georgiche e le Bucoliche e poi un trionfo pomposo di marmi a spalti e gradinate con cancellata, su cui svetta Virgilio Pomponio Marone declamante. A noi bambini degli anni 50 la potenza lirica e imperiale di Virgilio fregava, per esser sinceri, molto poco. Ma il monumento era Fort Apache. Alcuni di noi vedevano la tv. Rintintin e il caporale Rusty, nonché il tenente Rip Master e il sergente Ohara erano molto gettonati. Il piccolo caporale Rusty era molto invidiato. Ci pareva odiosamente spocchioso nella sua mini divisa, gratificato dalla rude e virile compagnia degli uomini del 7° Cavalleggeri, ma soprattutto padroncino di un cane, o meglio, il Pastore Tedesco Rintintin, che dimostrava ad ogni puntata di avere molti più neuroni della combriccola e, specie degli Apache. Gli odiati Apache, che avevano reso orfano quello sfigato di Rusty e che venivano regolarmente infinocchiati da Rintintin.
I tempi dei film tipo Soldato Blue, Piccolo grande uomo, Balla con i lupi erano molto a venire, per farci revisionare la nostra idea della storia del selvaggio Far West.
Attorno alla piazza correva una specie di protopista ciclabile. Era un sentiero poco discosto dalla strada asfaltata su cui passavano le rade auto premotorizzazione di massa. I più grandi e i più fortunati, coloro che avevano la bicicletta, si cimentavano nel giro cronometrato del giardino. Il campione di ciclismo Learco Guerra era, appunto, un mito locale ed un mito erano le sue biciclette vendute a caro prezzo con cambio Campagnolo e sellino sportivo in uno showroom del corso principale di Mantova. Ci si passava ore spalmati sulla vetrina a guardarle.
Il mio vecchio papà aveva molte massime utili per affrontare la crescita. Una di queste recitava che nella vita bisognasse assolutamente saper fare tre cose. In primis saper leggere e scrivere. Già ai miei tempi vigeva l’obbligo scolastico fino alla quinta elementare e, vivendo in una famiglia di gente grande e di buona istruzione, osmoticamente avevo imparato a leggere prima di andare a scuola. Per lo scrivere, nel senso della calligrafia, nonostante le scuole, non ci sono ancora compiutamente arrivato e il tempo incalzante mi fa pensare che il settore mi sia ostile. Ho una grafia di difficile comprensione..
Tra i benefits della mia infanzia devo annoverare la Canottieri Mincio. Questo club sorgeva sugli spalti riadattati di una fortezza dello storico sistema difensivo del maresciallo austroungarico Radetzky. La Canottieri con il lago, la piscina, il campo da calcio e da tennis era il soggiorno piacevolmente obbligato dalla chiusura delle scuole allo sciamare via per le vacanze estive con la famiglia. Il saper nuotare era il rito iniziatico per entrare nella comunità infantile del club e rappresentava il viatico necessario per una socialità anche molto gioiosa. Per di più esisteva un corso di nuoto molto naif di full immersion per la bisogna, gestito dal Rubens, un antesignano degli odierni personal trainers.
Quando mi presentai alla piscina a circa 5 anni dichiarando la mia incapacità natatoria, fui preso da questo signore di michelangiolesche fattezze, il Rubens appunto, e catapultato dal suo potente braccio in mezzo alla piscina. Fu gioco forza, per sopravvivere, mulinare gambe e braccia e poi perfezionare le strategie di galleggiamento. Il Rubens, cui sono mentalmente tutt’ ora grato, mi insegnò poi a nuotare compiutamente, con proprietà nei vari stili.
Degli imperativi categorici paterni in quel pezzo della vita che la psicoanalisi chiama risoluzione della problematica edipica, mi mancava il “capitolo bicicletta”.
Un bel giorno di quel tempo, estate ’53, il mio papà, il mio adorato papà, mi comunicò che era giunta l’ora che avessi la bicicletta e mollassi il rugginoso triciclo prebellico ereditato dai miei fratelli. Senza altre parole mi portò da un ciclista suo paziente. Incidentalmente, tendo a precisare che per ciclista si intende colui che vende e ripara biciclette, specie artigianale in estinzione. L’uomo era vestito da ciclista, cioè con tuta azzurra e basco in testa.Ora sono in camice. Gestiva la sua bottega in una piazza polverosamente bianca del paese dove il mio papà lavorava presso il locale ospedale. La bottega era una sorta di antro buio e il contrasto del biancore soleggiato della piazza prospiciente non mi fece vedere il contenuto della mercanzia. Ero abbagliato dal sole e dall’emozione. Il ciclista mi soppesò con uno sguardo e con rapida competenza antropometrica decise che il numero corrispondente alle mie misure fosse quello di una bicicletta rossa appesa alla rastrelliera sulla parete. Come un Polifemo, così nel mio ricordo, allungò il braccio e fece atterrare il “mezzo”. Era una bicicletta rossa da piccolo omino quale ero, non una Learco Guerra, ma sempre con dignità di bici. Con rapidi gesti il ciclista controllò lo stato delle gomme, altezza della sella e del manubrio, rigorosità dei freni. Me la consegnò. Come un citrullo in trance la imbracciai, guardando insistentemente la ruota posteriore. Fruivo ancora della capacità magica dei bambini di aspettarsi e credere ai miracoli. Allucinavo l’uscita delle rotelline posteriori, supporto che avevo visto adoperare nella formazione ciclistica dei coetanei. Non uscirono. Seguito dal ciclista e da mio padre, fui messo sul sellino e rudemente spinto in abbrivio sulla piazza, al sufficiente, per loro, grido: “Pedala!”. Dal precedente stabile triciclo alla rutilante bici il passaggio non fu indolore. Nonostante non fossi particolarmente imbranato, assaggiai bastanza volte la polvere di quella piazza. Bastanza volte fui soccorso, sollevato di peso e risospinto. Dicono i fisici che non si è ancora spiegato come dall’energia sprigionata dalla pedalata si attivi, poi, quel miracolo utile a mantenere in equilibrio dinamico le due ruote ed andare, o meglio, pistare. Quel pomeriggio nonostante diverse sbucciature a gomiti e ginocchi, con intensa e profonda soddisfazione, sotto lo sguardo rudemente tenero di mio padre ne uscii “pistante”. Per mio padre che faceva il chirurgo, e lo aveva fatto in guerra, le mie lesione erano ovviamente inezie. Giusto un’occhiata ed un urente batuffolo di cotone con alcool. Ma questo era il suo personale modo di vedere. Il mio è che erano dolorose, ma un contrappasso per transitare in un nuovo ciclo ludico della vita. Rimasero gli assalti al Fort Apache /Virgilio, le nuotate nel lago, ma la bici fu quasi incorporata al mio corpo. Ne divenne una specie di protesi accessoria/necessaria atta a sancire una nuova libertà.
Un pomeriggio dell’inverno che subentrò, quando la nebbia scese su Piazza Virgiliana a rendere difficile discriminare oggetti e ostacoli anche da vicino, decisi che fosse l’ora di tornarmene a casa. Un po’ imbronciato come quando ai bambini tocca rinunciare al loro vero lavoro che è il gioco, me ne tornai verso casa biciclettando lentamente. Entrato nella piccola palazzina dove vivevo mi accorsi di aver perso la chiave del deposito bici. In un attimo fui preso dall’ansia di non saper dove ricoverare il mio mezzo. Il film Ladri di bicilette era stato girato da pochi anni e forse non lo avevo visto al cinema, ma il concetto che il “mezzo”, bene oggetto per me assoluto, potesse essermi sottratto incombeva nella mia testolina. Non ero un colosso ma decisi di portarmi la mia bici in casa. Nella mia palazzina non c’era ascensore. Tre piani di scale con fardello non era cosa di poco sforzo. Cominciai a salire con la bici in spalla. Alla seconda rampa mi comparve di fronte una donna alta, che portava sulla schiena una grande gerla di vimini. Era vestita in maniera dimessa ma per me affascinante. Aveva lunga gonna di lana pesante da cui uscivano le gambe coperte da spessi calzettoni sempre di lana grezza. Le scarpe erano molto simili a pedule. Salendo io dal basso, osservavo il suo scialle colorato e una strana modalità di raccolta a crocchia della sua treccia bionda. I lineamenti erano marcati, quasi virili, ma straordinariamente raddolciti, direi, da grandi occhi azzurri. La mia bici era un peso piuma rispetto a quella grande gerla. Un pensiero terribile mi attraversò la mente e il cuore. Che fosse una fata strega rubabambini, e magari biciclette? Comiciai a piangere silenziosamente. Ero un bambino fisicamente tenero e generalmente accattivante. La fata strega si abbassò, svincolandosi dalle bretelle che le reggevano la gerla e si mise quasi al mio livello. Le lacrime mi scorrevano sempre più silenziosamente copiose sul viso. Osservai la signora togliere il coperchio della gerla. La fissai in volto e con la forza della disperazione le dissi: “Non portarmi via!”. Pensavo al caporale Rusty sottratto a stento agli Apache e alle diffuse storie di bambini asportati dalle loro famiglie. La fata mi guardò e con un sorriso ineffabile mi allungò, prendendolo dalla gerla, un piccolo Pinocchio di legno intagliato, come i tanti manufatti di legno che aveva dentro e che lei veniva a vendere, calando dalle valli allora, povere, del bellunese. Quindi si rimise la sua gerla e, sfiorandomi i capelli con una mano, riprese a scendere lentamente le scale, lasciandomi con la mia bici, Pinocchio e il resto delle mie lacrime.
Doc

6 commenti:

Ambra ha detto...

Un racconto pieno, bellissimo, che evoca un mondo scomparso, quasi una fiaba delicata e piena di poesia. I desideri, le attese di un bambino, il rapporto con la famiglia fatto d'amore e di severità, con le tue parole mi hai proiettato di colpo nel mio mondo infantile accendendovi una luce che ha reso per un attimo più vivi i miei ricordi. Leggerti, caro Doc, è stato un momento di gioia.

Bambina negli anni '50 ha detto...

Doc, complimenti per questo tuo racconto così vivido in cui sei riuscito a compendiare magistralmente alcuni episodi salienti della tua infanzia. E a farmi emozionare, in quanto anch'io ho ritrovato alcuni momenti simili della mia infanzia che da un punto di vista temporale, ritengo, sia stata abbastanza vicina alla tua, anche se vissuta in ambito milanese.
Posso finire con un "W Rin Tin Tin" ?!?
(anche se, col senno di poi, mi spiace davvero un sacco per la sorte dei Pellerossa).

Ida ha detto...

Caro Doc non so chi sei (volontario Seneca? esterno?)né come ti chiami e mi dispiace un pò perché a mio parere l'anonimato toglie qualcosa alla condivisione di esperienze e momenti.
Ti voglio ringraziare per il bel momento che ho vissuto nel leggere quel pezzetto della tua infanzia che ci hai regalato!
Ida

Anonymous ha detto...

Complimenti anche da parte mia sia per lo stile, spontaneo e contemporaneamente costruito, su un sottofondo culturale molto interessante, sia per l'emozione che si legge tra le righe nella rievocazione di questo passato infantile in una splendida provincia italiana che sai dipingere con molta arte.

Fabio ha detto...

Un racconto bellissimo

Mirco ha detto...

Grazie... :o)