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sabato 5 settembre 2009

Parlare o tacere?

Marzo 1989 - Lilli ha 22 anni
è in ospedale a Pavia, l'aids l'ha divorata. Ogni sabato vado a trovarla, mi siedo sul suo lettino, le prendo la mano ed in silenzio le faccio compagnia.
In alcuni momenti si appisola, poi all’improvviso sussulta, sbarra gli occhioni azzurri e fissa lontano, dietro le mie spalle, poi il corpo si rilassa in un altro pisolino. In quegli occhi vi è tanta solitudine, tanta paura di quel mondo lontano che intravede, che è già presente dentro di lei ma non posso aiutarla, devo rispettare il gioco delle parti presente in questa cameretta: la mamma le dice di mangiare, così ingrassa e lei risponde, con la sua vocina, «domani mamma, domani mangio».
Sopraffatte entrambe da questa commedia macabra, chiuse nella loro paura del dolore intollerabile della separazione, che sanno essere prossima, non osano dirselo e io posso solo rispettare questa terribile sofferenza alla quale assisto impotente. La mamma si assenta un attimo e Lilli mi sussurra «che mangiare! Ida io sto morendo e lo sai anche tu». Appoggio delicatamente la mia guancia alla sua, mentre le stringo la manina ossuta e lei ricambia la stretta, richiudendosi nel suo silenzio. Per lei fare silenzio è ben altra cosa che stare zitta. è crearsi uno spazio, dentro, nel quale trovarsi ed ascoltarsi, al riparo da tutte le altre voci. Non ho il coraggio di negare la verità che conosce da mesi ma che ha potuto confidare solo ad un’amica, in un momento in cui non era presente sua madre, una verità che forse avrebbe voluto poter condividere con chi l’amava tanto.
Lilli si spegne di notte.
La mamma è lì con lei, ma non ha potuto accompagnare sua figlia in questo percorso da esplorare perché questo accompagnamento richiede la disponibilità ad affrontare il rischio di aver paura a nostra volta. Ma nella nostra società di morte non si parla più. In un luogo dell’immaginario dove non sappiamo più situarci, combattiamo tutti una stessa battaglia per non essere sopraffatti dalla paura della nostra distruzione, della nostra malattia, della nostra morte.

Maggio 1989 - Cristina ha 24 anni
come Lilli, ex tossicodipendente, aspetta la fine nel suo lettino d’ospedale, a Brescia. Una sera al telefono la mamma mi dice che teme di perdere il posto di lavoro se fa troppe assenze per andare più spesso in ospedale. E’ un attimo, rivedo gli occhioni di Lilli, la sua disperata solitudine, la mia scelta di allora di non intervenire per rispetto, un attimo, le parole anticipano il pensiero e mi sento dire: «Tua figlia sta morendo; non rifiutare questa verità che conosci. Ti prego, non lasciarla partire da sola fingendo che non succederà». E’ stato difficile dimenticare in seguito il suo urlo straziante mentre ripete «no, no, no, non è vero». Singhiozza a lungo prima di riuscire a parlare di nuovo; ma quando si riprende, mi chiede con un filo di voce cosa deve fare.
Dolcemente le racconto la storia di Lilli e la sua grande paura solitaria, cerco di incoraggiarla a sentire il suo bisogno e quello di Cristina di vivere la separazione che le attende anziché negarla, a capire che il preoccuparsi del suo posto di lavoro era un modo per affermare a se stessa che la vita continuava nella sua normalità. L’aver portato a stato di consapevolezza questa sua difesa legittima e disperata l’aiuta a decidere immediatamente e mi comunica con voce ferma che dall’indomani si trasferirà in ospedale, a fianco di sua figlia, fino alla fine. Mi chiede solamente di essere con loro quando dovranno separarsi. Mi chiama di notte. Quando arrivo la crisi è passata. Per lunghe ore mi racconta la sua vita di questi giorni, il suo continuo parlare a sua figlia, immagini della loro vita insieme, favole che le raccontava quando era piccola, il suo dirle quanto l’ha amata, quanto l’ama e quanto l’amerà sempre, il suo confessarle che anche lei ha paura ma che sono insieme, i suoi lunghi silenzi mentre l’accarezza. Ormai Cristina è raramente cosciente, ma la mamma è convinta che la sua voce tenera e rassicurante, il costante contatto fisico, la raggiungono dovunque lei sia perché da quando ha cominciato a comportarsi in questo modo, Cristina appare molto più rilassata e lei non si sente più mentalmente lontana dal dolore del suo morire.
L’agonia dura due giorni.
Quando Cristina cessa di respirare, la mamma mi guarda, esitante, quasi a chiedere conferma che l’ha proprio lasciata. Tutta la notte restiamo a parlare accanto a lei ed in quel parlare mi aiuta a sciogliere il dubbio che mi tormenta dalla sera della telefonata: infatti quando avevo riappeso, avevo avuto una terribile crisi di pianto, chiedendomi se era stato giusto metterla di fronte ad una verità che lei non voleva vedere. Mi aiuta perché quando le spiego questo mio dubbio, è lei che abbraccia me con tanta dolcezza e mi dice quanto quello che lei definisce “il mio coraggio di quel momento» l’ha aiutata a capire in tempo e le ha dato la possibilità di accompagnare Cristina. Chissà, forse superando il rispetto che mi paralizzava, avrei dovuto trovare il coraggio di parlare con la mamma di Lilli? o forse quella mamma avrebbe reagito diversamente? o forse ci deve essere “una prima volta” per non ripetere gli stessi errori? non lo saprò mai.
Ida Conti
image cc by The Artifex

2 commenti:

Ambra ha detto...

La risposta alla domanda del titolo non è facile.
Credo dipenda molto dalla persona che hai davanti. Il dolore tende a chiuderti e l'intervento di un altro potrebbe essere vissuto come una indebita intrusione nel proprio intimo. Non credo esista una ricetta sempre valida. E davanti alla morte tutto è difficile e privo di senso.

Fabio ha detto...

Ciao Ida, queste due testimonianze sono davvero forti e toccanti. Non ci sono risposte standard, nel momento in cui facciamo o non facciamo qualcosa, se siamo in buona fede, dobbiamo accettare che sia giusto in quel momento stesso. Le risposte che ci diamo a posteriori raramente hanno un senso, l'unica cosa che ha senso davvero è la vita nel momento stesso in cui la si vive.